Interviste

Per una ricostruzuone della clinica del tossicomane
Claude Olievenstein
Sabato, 24 aprile 1999, casa della psicanalista Raffaella Bortino, Torino.

 

Claude Olievenstein, psicanalista, direttore dell'Ospedale Marmottan di Parigi, scrittore di numerosi saggi sulla tossicomania, è supervisore di casi particolarmente complessi tenuti in cura da Raffaella Bortino. Fondatrice e per alcuni anni direttrice della comunità terapeutica "Il Porto", la psicanalista torinese ha di recente fondato una nuova comunità, "Fermata d'autobus"., nella quale i residenti, talvolta anche tossicomani, hanno in prevalenza problemi di tipo psichico.
Nel corso di un incontro a Torino ho raccolto le risposte e le riflessioni di Olievenstein, in seguito ad alcune domande postegli da psicanalisti e terapeuti presenti alla riunione.
La mia domanda, sulla caduta dell'utopia e dell'ideologia, si incastona nelle riflessioni di questa giornata, con un approdo che, dal suggerimento a ripensare Platone, fa suggerire pessimisticamente Nietzsche ad Olievenstein. Secondo il suo stile, che è di provocazione, ma che non gli impedisce di continuare a sperimentare per migliorare la condizione di chi è stato toccato dal disagio.
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Due, le domande iniziali: Che cos'è la doppia patologia?
Che cosa c'è prima, le turbe psichiche o la tossicomania?

OLIEVENSTEIN - Le cliniche sono alla periferia delle città, non sono quasi mai al centro. La clinica del tossicomane, che era - me lo ricordo - una vita insieme, una co-vita - tra una clinica della causalità e una clinica dell'intensità, non aveva più bisogno di esistere, poichè i tossicomani non ponevano una domanda all'organizzazione della città, ma chiedevano di essere assistiti. Si sono precipitati verso gli organismi di cura i più poveri, da dove si sono rivissuti i tentativi di trattare soltanto i comportamenti tossicomaniaci. Ma per trattare i tossicomani attraverso i mezzi tradizionali bisognava avere una giustificazione ideologica vestita di abiti scientifici. Il metadone era conosciuto da molto tempo, ma il suo posto, nell'immaginario del terapeuta, era accessorio come i bombardamenti americani in Kosovo: i morti sono considerati come soggiacenti, la patologia è considerata come soggiacente, bisognava rivalorizzare la concezione scientifica della tossicomia. Questo è stato reso facile da due movimenti contraddittori: i giovani delle classi medie rifiutavano sempre di più di essere addomesticati, rifiutavano di andare nelle istituzioni, eccetto in alcune cliniche, per lasciare il posto a una categoria più povera della popolazione in cui la patologia era più ambigua, al punto che tutte le discussioni internazionali riportano oggi sul problema della dipendenza - "addiction" -, il termine ha una sua importanza. E' così che di più in più abbiamo ritrovato le vecchie patologie, come le tossicomanie senza droga, come l'obesità e l'anoressia nel senso di Fonneconnamourt nel 1920 e abbiamo presentato alle istituzioni una possibilità di avere e di lavorare con una concezione di addizione (dipendenza) e non più di tossicomanie. E' così che è apparsa, in seguito agli Americani, la nozione fondamentale di doppia diagnosi. Permettetemi di dire con forza che la doppia diagnosi è una scelta ideologica. Tutti i tossicomani hanno sempre presentato una doppia patologia; è molto facile da dire ma non da fare; essi rivendicavano l'identità di tossicomani, e questo è un inizio fondamentale. Domandavano di essere presi in carico per la loro tossicomania e poco importava se erano allucinati o deliranti, quello che domandavano come azione terapeutica era la presa in carico della loro tossicomania. Questo fatto è stato recuperato per i bisogni delle società civili che hanno riscoperto un mezzo antico, ma dichiarato nuovo, che è il trattamento attraverso la sostituzione. La sostituzione permette di avere un vero malato in faccia a se stesso, e questa percezione nuova è stata accelerata dall'apparizione dell'aids: ecco finalmente una malattia vera con un virus, con dei disturbi somatici, dei disturbi neurologici, che toccavano elettivamente due popolazioni a rischio, la popolazione omosessuale - che qui interessa ancora poco, perché non sono lontano dal credere che un giorno l'omosessualità arriverà alla doppia patologia -, ma in secondo luogo il gruppo delle addizioni (dipendenze) - tossicomania allargata alle addizioni (dipendenze) - e dunque ( la sostituzione permette) di poter istituire scientificamente un trattamento di controllo, che controllava la tossicomania e permetteva infine di avere dei veri pazzi. E se guardiamo l'evoluzione delle istituzioni, esse si riempiono sempre di più di veri matti, e i veri tossicomani non sono più là. Ma io insisto a dire che sono altrove; semplicemente siamo tornati indietro di quaranta cinquant'anni. Noi non consideravamo la tossicomania come una diversità, ma unicamente come un comportamento. Allora voi ponete un certo numero di domande, alle quali io sono imbarazzato e nel rispondere. Esiste oggi una doppia patologia? Sì. Esistono anche dei veri tossicomani? Sì. Sono in grado di rendersi conto, coloro che trattano i veri tossicomani, di quale patologia si tratta? No. Siamo di fronte, secondo me, a questa situazione che - lo ricordo bene - sistema bene lo Stato: messa a punto di un inquadramento che non costa tanto e che permette il controllo dei tossicomani, e se i tossicomani sono reticenti, allora trattiamo la famiglia. Questo non risponde alla domanda "Che cos'è la doppia patologia?", e alla domanda che avete posto, "Che cosa c'è prima, le turbe psichiche o la tossicomania?". Io credo che si deve dividere la riposta in due. In quelli che sono malati e che sono quelli che voi vedete, le turbe psichiche sono precedenti; le turbe psicotiche, border line, perverse, sono anteriori, e il dramma si vede immediatamente nel passato, quello che ho chiamato - a seguito di una deformazione di Lacan - "lo stadio dello specchio infranto": è avvenuto, nell'infanzia del tossicomane, un trauma che non gli ha permesso di costruire la sua identità; in seguito a questo, va cercando nella sua vita, nelle sue condotte di vita, di ricostituire l'identità. E così quando guardiamo l'infanzia di questo soggetto, c'è stata l'obbligazione ludica, perfino di più, l'allucinazione ludica, dove il soggetto è letteralmente obbligato a giocare; poi potremo modificare le turbe del sonno, le turbe della sessualità precoce, con questa scoperta, che c'è del piacere nella sessualità, e che questo piacere può essere ripetuto. Si scopre la ripetizione del bisogno e il bisogno di ripetizione. E ' su questo, secondo me, che noi dobbiamo lavorare. Poi ci sono delle persone che pensano che il livello culturale della società, la musica ad esempio - oggigiorno è il rap, ieri il rock -, certi tipi di musica si fanno entrare in uno schema culturale che porta alla tossicomania. Questo ci indica, a mio avviso, che è più funzionale una psicopedagogia e non un'interpretazione; si richiede una condotta direttiva con dei metodi comportamentali che un impianto di tipo analitico, un ascolto analitico. Allora, che cosa c'è che funziona? Non molte cose.. Quella che esiste oggi mi sembra caduca.

Psicoterapeuta - Allora, che tipo di clinica? La clinica legata alla psicopatologia? Una clinica legata al problema dell'identità? Una clinica legata all'intensità e alla velocità?

C. O. - Sono tutte domande di difficile risposta. Credo che ci voglia tutto. Credo che ognuna di queste proposizioni per ragioni varie - voi sapete che ho definito la tossicomania come un'equazioni a tre parametri, il prodotto, il soggetto e il momento socioculturale - e dunque per queste ragioni il tale o tale metodo riesce meno male che un altro. Bisogna che il soggetto trovi a sua disposizione una catena terapeutica o un ventaglio terapeutico che permetta di orientare verso questa o quella soluzione il tale o tale soggetto. Ma bisogna che ognuno di noi faccia la sua evoluzione culturale. Abbiamo lavorato con degli strumenti erronei su dei soggetti inadeguati e siamo incorsi in fallimenti: quando dico "fallimenti" dico fallimenti dall'uscita dalla tossicomania, che farebbe sì che, se noi fabbricassimo delle casseruole, saremmo da molto tempo in fallimento. Credo che dobbiamo utilizzare i nostri strumenti, ma nello stesso tempo librarci verso una critica massiccia di quello che noi proponiamo. In breve, è a una ricostruzione della clinica quello a cui faccio appello.

Altro psicoterapeuta - La questione dell'identità tossicomaniaca si regge con una relazione con l'oggetto: l'oggetto entra gradatamente a far parte della struttura della personalità del soggetto. Ora, è abbastanza curioso - ed è già stata opportunamente stata tirata fuori la questione dell'ambiguità - vedere se come terapeuti o in nostri tentativi terapeutici non cadiamo in grosse ambiguità. Ho sentito già altre volte Olievenstein e vorrei parlare della "riparazione del danno". Oggi, in situazioni relative a problemi cronici, non si fa altro che tentare una "riparazione del danno", nella speranza che i medicamenti siano sostitutivi. D'altra parte la clinica psichiatrica ritiene di avere già ottenuto dei buoni risultati quando attraverso dei prodotti stabilisce un rapporto cronico con degli psicopatici. C'è una via d'uscita da questa situazione?

C. O.- La questione dell'oggetto - oggetto transizionale nel senso di Winnicot - è il cuore del problema della tossicomania. Ciò che è al cuore della tossicomania non è l'oggetto "droga", ma sono gli effetti che questo oggetto inerte procura al livello della libido, della relazione con il piacere; nella relazione fusionale o almeno qualche secondo, qualche centesimo di secondo il tossicomane si sente riunificato. Allora, è ben vero che una delle posizioni terapeutiche interessanti è di collocarsi al posto dell'oggetto "droga" e di sostituire la sua relazione fusionale a quella che è nata con l'oggetto droga. L'oggetto droga ci ricorda da lontano la masturbazione precedente, ma la difficoltà di uscire da questa posizione fusionale è di restare in questa situazione perversa che riguarda al tempo stesso il terapeuta e l'oggetto droga. Non abbiamo trovato niente di meglio che fare appello all'istituzione e, prima della doppia patologia, abbiamo avuto molto spesso la doppia presa in carico istituzionale e individuale, e questo ha potuto riuscire se, come il mio caro Pascal ( il terapeuta che ha fatto l'ultima domanda), siamo dei terapeuti affermati e che conosciamo la clinica, e abbiamo una famiglia che evita di farsi sedurre dal tossicomane e dal suo oggetto. Ma, al posto di questo, che cosa è successo in realtà? Abbiamo piazzato un'analisi freudiana statica, causalista, là dove c'era l'intensità e la modificazione dello status affettivo; è stato un fallimento, e non poteva che essere un fallimento, perché noi siamo in questa ambiguità della quale cerco di parlare da anni sulla parte della clinica causalista e della clinica dell'intensità. Perché la presenza del terapeuta si possa comparare a quella dell'oggetto "droga" bisognerebbe andare troppo lontano. Lui non può e non vuole farlo, eccetto che farsi sedurre. Allora, che cosa succede in realtà?, perché bisogna parlare della realtà. Bisogna passare attraverso uno stadio dove la cultura analitica deve lasciare il posto a ciò che ho chiamato, in mancanza di meglio, la psicopedagogia, cioè un incontro di un mélange non molto ben formato, un magma, dove le due cose si incontrano e portano ad un compromesso essenzialmente sociale e che non risolve il problema della patologia e del dolore, e non risolve neanche il problema della mancanza, che resta fuori dal problema. Noi non sappiamo trattare la mancanza, almeno non così bene come il metadone, e io posso capire che dei terapeuti abbandonati utilizzino il metadone o il subitex, ma non si può parlare in nessun caso di guarigione, e non si può parlare in alcun caso di uscita.

Psicoterapeuta precedente - La questione che colpisce, nel primo approccio di tanti giovani che hanno il problema della tossicomania, è la questione dell'auto-terapia. La differenza di altre situazioni nei confronti della clinica psichiatrica è che ci troviamo di fronte a persone che hanno stabilito una relazione immediata con un determinato prodotto in qualche maniera auto-terapeutico. Si crea dunque un cerchio molto immediato e chiuso, sul quale è particolarmente difficile entrare. Nel caso ad esempio delle psicosi sono gli psichiatri che determinano la scelta dei farmaci utili al paziente. Di fronte a questo aspetto salvifico, come si fa invece a intervenire su di una persona che ha già acquisito - o almeno, così crede - la soluzione del problema, è già in possesso della soluzione? Noi ci troviamo in questi casi molto alla periferia. Chiedo se Olievenstein ha qualche suggerimento.

C. O. - Quando si parla di auto-terapia, ci si domanda di quale auto-terapia si tratti, se del curante o del paziente. Perché ci troviamo di fronte ad una patologia fra virgolette, dove il soggetto ne sa tanto quanto, se non di più, del terapeuta, soprattutto nella relazione con il piacere. Il secondo elemento in questa autoterapia è la cinetica, la cinetica del paziente - "Voglio tutto in fretta e subito", ivi compreso "sedurre il mio terapeuta" -, e la cinetica del terapeuta, che è sempre in ritardo di una stazione, perché vuole capire là dove non c'è altro che seduzione. Sono sempre rimasto molto colpito, quando posso seguire il circuito di un tossicomane in più istituzioni, del fatto che il discorso del tossicomane può cambiare: vuole dare il discorso che pensa di soddisfare il suo nuovo terapeuta o la sua nuova istituzione. E' un mercato di imbroglioni; e l'uscita è: primo, non essere mai soli con un tossicomane, avere sempre un riferimento istituzionale o di un altro collega, e d'altra parte la costruzione di una sorta di rete, ma là entriamo ancora in un altro capitolo. Non c'è salvezza sociale che nella legge. Ora, la psichiatria si è costruita ed è suo onore non diventare controllore della società. E attualmente io penso che negli ambienti in cui ci si occupa di tossicomani c'è un grande dibattito: forse che il nostro ruolo, siccome la tossicomania ci fa paura e non sappiamo trattarla, è di far sì che la tossicomania deve superare l'addomesticamento sociale o, al contrario, sono i tossicomani selvaggi, quelli che non vengono nelle istituzioni, che ci aiuteranno forse a costruire qualcosa?

Maricla Boggio - Vorrei chiedere al professor Olievenstein se la tossicomania è da considerare una malattia esclusivamente legata alla nostra epoca. In altre parole, quando non c'era la droga, come si sviluppava la patologia che adesso ricorre alla droga? Veniva usata qualche altra sostanza o si produceva un qualche tipo di comportamento sostitutivo?

C. O. - Mi sembra che bisogna legare il bene sociale all'apparizione della velocità, perché prima della velocità, prima dei missili, prima dei treni, prima degli aerei, c'era una quantità di sostituzioni, e prima di tutto l'alcool, soltanto che avvenivano ad una velocità differente, e noi ci trovavamo davanti alla situazione o ci troviamo piuttosto che allo stesso tempo dobbiamo tener conto della velocità e dell'antichità dei cammini che portano alla tossicomania. Sfortunatamente è così, ma l'uomo ha sempre cercato di avere dei prodotti di sostituzione. Gli indiani ritengono che i peli del dorso del Dio Visnù siano equivalenti alla cannabis.

Terzo psicoterapeuta - Mi sembra che molte delle teorie attuali sulle tossicomanie siano costruite su di una clinica da eroinomane. Predominante la riflessione sul soggetto che usa l'eroina, e quindi mette in rilievo l'aspetto della dipendenza. Mi chiedo, anche in relazione a quello che si vede più recentemente in relazione al servizio sulle tossicomanie, se non ci sia un fenomeno che è nuovo, cioè più attuale. Lei diceva che il tossicomane cerca un centesimo di secondo per sentirsi unificato. L'impressione - quello che si vede, anche in relazione a nuove droghe che si pongono su un altro piano - è che, per chi usa droghe, c'è un secondo di esistenza, attraverso qualcosa che gli dia la possibilità di sentirsi non tanto uno, quanto esistente. Mi chiedo se non si possa pensare ad una problematica, riprendendo il discorso dello specchio infranto, in cui in realtà queste persone non hanno mai visto lo specchio, neanche a pezzi, che non ci sia stato mai un rimando di immagine, e quando gli viene proposta in una relazione, provoca quello che ha provocato ai selvaggi quando hanno scoperto se stessi, che in un primo tempo si sono spaventati, e ne prendono le distanze. Chiedo se questo potrebbe essere un punto per partire e costruire una clinica nuova, che risponda di più alle caratteristiche di tossicomanie dove il termine "addiction" fosse veramente più adatto.

OLIEVENSTEIN - Sì e no. Sono desolato, ma è sì e no. E' vero che noi assistiamo, in relazione agli eroinomani, a una modificazione del senso della dipendenza. Con l'eroina è il piacere; con l'addittivo è l'anestesia, non esistendo un momento, ma anestetizzato da che cosa? La mancanza di conforto sociale, il rigetto sociale, la mancanza di identificazione paterna - e potremmo moltiplicare la causalità -; ed è vero che questo tipo di persone vanno massicciamente nelle istituzioni, ma non si possono assimilare a questo le migliaia di giovani che nelle serate "rave" prendono dell'extasy: non è patologico, questo, è una condotta trasgressiva degli adolescenti, come vent'anni fa c'era la cannabis, fa parte della nozione di comportamento, ma a meno di accettare di essere all'interno di una regolazione sociale, non è una patologia, è una relazione con la trasgressione, con il piacere, ma il piacere è secondario, è secondario a quello che ho chiamato l'anestesia, "non voglio sapere, voglio scoppiare, voglio danzare". E la musica attuale, fatta in Francia, è tipica. Per la classe media francese è la "techno", è il piacere, e per la gente delle minoranze, dei neri, dei nordafricani è il "rap", con delle parole di una violenza estrema, e tutti prendono la stessa droga. Dunque è vero quello che tu dici, ma è anche nello stesso tempo una contraddizione, e non so dove questa si fermi, solo che so che il mio mestiere è fondamentalmente di alleviare delle situazioni di dolore. Un ragazzo di diciotto anni che va a ballare e prende l'ecstasy subisce un dolore o vive una libertà? Là ancora dobbiamo rivedere i nostri obbiettivi, ridefinire il nostro oggetto di lavoro; per esempio è possibile che dei genitori ci portino dei ragazzini di diciassette diciotto anni che cominciano a fumare o prendono dell'ecstasy o delle anfetamine, e ci chiedono di curarli. E io capisco " Curi noi". Perché quando esamino il ragazzino o la fanciulla, non hanno niente di patologico, dunque bisogna ammettere che ci sono delle persone che non hanno nessuna patologia e che prendono dei prodotti, e altri che prendono gli stessi prodotti e che invece manifestano delle psicopatologie.

Francisco Mele - Io credo che in questi ultimi anni sia cambiato la scena del fenomeno tossicomanico, per cui le categorie di lettura devono anche comprendere i concetti della filosofia politica, della filosofia morale e della storia delle istituzioni. Gli anni settanta erano gli anni in cui l'utopia e l'ideologia avevano raggiunto i momenti più alti nel conflitto sociale. Si voleva cambiare la società e si credeva di avere gli strumenti per farlo. La patologia dell'utopia e dell'ideologia ha portato, secondo me, una fascia di giovani a giustificare l'uso delle droghe. Oggi invece, senza utopia e senza ideologia - intesa come rappresentazione della società -, questi giovani giustificano l'uso delle sostanze attraverso motivazioni meno nobili, quali la noia, l'esperimento, eccetera. Negli anni settanta le correnti filosofiche, psicoanalitiche, affermavano la "morte di Dio" e, come conseguenza di essa, anche la scomparsa del soggetto attraverso l'uccisione del "Padre". Ciò porta al malessere, che è il "male dell'essere". Penso che la psicoterapia e la nuova clinica debbano riprendere il rapporto con Platone e con la filosofia.

C. O. - Non sono un avversario di Platone, ma alla fine è ben platonico quando ho un soggetto davanti a me. Io penso, come te, che bisogna ripensare alle nostre basi teoriche e alle nostre basi ideologiche, ne sono intimamente convinto. Ma non so se è soltanto un'arma per pensare e non un'arma per lavorare; anche qui ci troviamo di fronte ad una dicotomia. Io penso che la risposta sociale debba essere tale da confermare la politica della riduzione dei rischi; la scelta della sostituzione come sola uscita istituzionale rimette in piedi l'ideologia. Io non sono politicamente impegnato, ma ritengo che quello che sta avvenendo tra le periferie delle grandi città e i centri delle città è un combattimento tra la vita e la morte per la presa del potere, perché alla fine non ci sono solo le tossicomanie, c'è lo sviluppo della violenza, ci sono i crimini sessuali, eccetera eccetera, che fanno paura alla classi dirigenti, con delle varianti da un paese all'altro. Ma noi siamo nel cuore di un conflitto quando vedo che i "medici del mondo", una struttura che amo molto, sono presenti nelle serate "rave" per parlare del pericolo dei prodotti: mi sembra una delegazione per controllare le persone, anche se loro hanno degli atteggiamenti soft. Siamo comunque di fronte a un vero combattimento ideologico, e la scelta tra le parole tossicomania e addizione è lontano dall'essere convincente. La proposta terapeutica non è la stessa per un tossicomane e per un "addetto" ( dipendente); dunque questa tua domanda arriva in pieno dibattito, e la risposta dei professionisti dipende da molte cose. Sfortunatamente il solo modello alternativo che ci propongono è il modello medico, che vuol fare della tossicomania una malattia come le altre, ed è in questo quadro - io credo - che la concezione della doppia patologia si sta sviluppando. Sono effettivamente dei malati sociali, inadatti alla società. Tu leggi Platone, ma sfortunatamente si tratta di Nietzsche, che è più terribile.

Una terapeuta di"Fermata d'autobus" - Io è da stamattina che mi pongo una questione: di quale clinica, in particolare di quale clinica è il paziente che abbiamo a Trofarello, dove - mi sembra - i casi siano sempre più difficili, dove la componente psichiatrica mi sembra sempre più massiccia, e dove io con i colleghi tutti i giorni ci troviamo a che fare con dei casi che ci fanno vivere - io penso - dei momenti di grande impotenza, dove spesso ci poniamo delle domande, abbiamo la sensazione di lavorare come con la tela di Penelope, cioè di avere la sensazione di ricostruire, di riuscire a fare un minimo di progetto, poi per qualche motivo il nostro progetto viene invalidato. Mi rendo conto che quelle che potevano essere in passato, possiamo dire, delle direttive, oggi come oggi debbano essere riviste. Il concetto della legge, l'applicazione della legge, l'intervento di lavoro, gli strumenti di lavoro, penso che sia un discorso che, sia nella nostra istituzione sia con i servizi con cui noi collaboriamo, debba essere impostato e portato avanti. Per cui spesso mi chiedo con questi casi quali strumenti clinici possiamo usare, direi proprio nell'ottica di una riduzione del danno.

C. O. - Io amo molto Trofarello, e prima "Il porto", dove c'è stato storicamente un primo dibattito tra comportamentisti e psicanalisti. Possiamo dire che gli psicanalisti hanno vinto, cosa che non ha regolato i problemi al di là di ciò, poichè gli operatori erano confrontati e sono tuttora confrontati a una doppia posizione che mi sembra sempre contradditoria: da una parte sono i garanti della legge, hanno il potere di esclusione e così via, e dall'altra parte sono di cultura psicanalitica e si sforzano di fare un lavoro di interpretazione e di ascolto, diciamo sono benevoli. La benevolenza è in contraddizione con la legge. Poco a poco emerge dall'esperienza di Trofarello - è lontano dall'essere fatto, ma la direzione è stata presa - di cessare quello che era diventato quasi un imbroglio ( una truffa) e di utilizzare sempre di più la psicopedagogia, che permette da una parte forse l'interpretazione - ma che non è lo strumento maggiore -, per fare posto ad una direttività delle situazioni. E di fronte a questo stato - voi lo sapete bene quanto me, Egle tu lo sai bene quanto me - a più riprese noi abbiamo affrontato il problema della cronicità, che non abbiamo risolto, ma che è un cammino verso il quale tendiamo tutti a lavorare e le mie supervisioni sono in questo senso, per fare posto un po' per volta ad un progetto terapeutico minimale, meno minimale e ancor meno minimale e che passi sempre più attraverso un'individuazione dei progetti terapeutici. C'è la legge collettiva e poi c'è l'individualizzazione del procedimento, ma c'è un pericolo, ed è di abbandonare la nozione di individualizzazione al profitto essenzialmente e sostanzialmente della legge, dunque bisogna trovare un po' per volta l'equilibrio tra queste due esigenze; per me sarebbe già un progresso se l'interpretazione analitica statica perdesse il suo posto.
PER UNA RICOSTRUZIONE DELLA CLINICA DEL TOSSICOMANE

Claude Olievenstein
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Sabato, 24 aprile 1999, casa della psicanalista Raffaella Bortino, Torino.

Claude Olievenstein, psicanalista, direttore dell'Ospedale Marmottan di Parigi, scrittore di numerosi saggi sulla tossicomania, è supervisore di casi particolarmente complessi tenuti in cura da Raffaella Bortino. Fondatrice e per alcuni anni direttrice della comunità terapeutica "Il Porto", la psicanalista torinese ha di recente fondato una nuova comunità, "Fermata d'autobus"., nella quale i residenti, talvolta anche tossicomani, hanno in prevalenza problemi di tipo psichico.
Nel corso di un incontro a Torino ho raccolto le risposte e le riflessioni di Olievenstein, in seguito ad alcune domande postegli da psicanalisti e terapeuti presenti alla riunione.
La mia domanda, sulla caduta dell'utopia e dell'ideologia, si incastona nelle riflessioni di questa giornata, con un approdo che, dal suggerimento a ripensare Platone, fa suggerire pessimisticamente Nietzsche ad Olievenstein. Secondo il suo stile, che è di provocazione, ma che non gli impedisce di continuare a sperimentare per migliorare la condizione di chi è stato toccato dal disagio.
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Due, le domande iniziali: Che cos'è la doppia patologia?
Che cosa c'è prima, le turbe psichiche o la tossicomania?

OLIEVENSTEIN - Le cliniche sono alla periferia delle città, non sono quasi mai al centro. La clinica del tossicomane, che era - me lo ricordo - una vita insieme, una co-vita - tra una clinica della causalità e una clinica dell'intensità, non aveva più bisogno di esistere, poichè i tossicomani non ponevano una domanda all'organizzazione della città, ma chiedevano di essere assistiti. Si sono precipitati verso gli organismi di cura i più poveri, da dove si sono rivissuti i tentativi di trattare soltanto i comportamenti tossicomaniaci. Ma per trattare i tossicomani attraverso i mezzi tradizionali bisognava avere una giustificazione ideologica vestita di abiti scientifici. Il metadone era conosciuto da molto tempo, ma il suo posto, nell'immaginario del terapeuta, era accessorio come i bombardamenti americani in Kosovo: i morti sono considerati come soggiacenti, la patologia è considerata come soggiacente, bisognava rivalorizzare la concezione scientifica della tossicomia. Questo è stato reso facile da due movimenti contraddittori: i giovani delle classi medie rifiutavano sempre di più di essere addomesticati, rifiutavano di andare nelle istituzioni, eccetto in alcune cliniche, per lasciare il posto a una categoria più povera della popolazione in cui la patologia era più ambigua, al punto che tutte le discussioni internazionali riportano oggi sul problema della dipendenza - "addiction" -, il termine ha una sua importanza. E' così che di più in più abbiamo ritrovato le vecchie patologie, come le tossicomanie senza droga, come l'obesità e l'anoressia nel senso di Fonneconnamourt nel 1920 e abbiamo presentato alle istituzioni una possibilità di avere e di lavorare con una concezione di addizione (dipendenza) e non più di tossicomanie. E' così che è apparsa, in seguito agli Americani, la nozione fondamentale di doppia diagnosi. Permettetemi di dire con forza che la doppia diagnosi è una scelta ideologica. Tutti i tossicomani hanno sempre presentato una doppia patologia; è molto facile da dire ma non da fare; essi rivendicavano l'identità di tossicomani, e questo è un inizio fondamentale. Domandavano di essere presi in carico per la loro tossicomania e poco importava se erano allucinati o deliranti, quello che domandavano come azione terapeutica era la presa in carico della loro tossicomania. Questo fatto è stato recuperato per i bisogni delle società civili che hanno riscoperto un mezzo antico, ma dichiarato nuovo, che è il trattamento attraverso la sostituzione. La sostituzione permette di avere un vero malato in faccia a se stesso, e questa percezione nuova è stata accelerata dall'apparizione dell'aids: ecco finalmente una malattia vera con un virus, con dei disturbi somatici, dei disturbi neurologici, che toccavano elettivamente due popolazioni a rischio, la popolazione omosessuale - che qui interessa ancora poco, perché non sono lontano dal credere che un giorno l'omosessualità arriverà alla doppia patologia -, ma in secondo luogo il gruppo delle addizioni (dipendenze) - tossicomania allargata alle addizioni (dipendenze) - e dunque ( la sostituzione permette) di poter istituire scientificamente un trattamento di controllo, che controllava la tossicomania e permetteva infine di avere dei veri pazzi. E se guardiamo l'evoluzione delle istituzioni, esse si riempiono sempre di più di veri matti, e i veri tossicomani non sono più là. Ma io insisto a dire che sono altrove; semplicemente siamo tornati indietro di quaranta cinquant'anni. Noi non consideravamo la tossicomania come una diversità, ma unicamente come un comportamento. Allora voi ponete un certo numero di domande, alle quali io sono imbarazzato e nel rispondere. Esiste oggi una doppia patologia? Sì. Esistono anche dei veri tossicomani? Sì. Sono in grado di rendersi conto, coloro che trattano i veri tossicomani, di quale patologia si tratta? No. Siamo di fronte, secondo me, a questa situazione che - lo ricordo bene - sistema bene lo Stato: messa a punto di un inquadramento che non costa tanto e che permette il controllo dei tossicomani, e se i tossicomani sono reticenti, allora trattiamo la famiglia. Questo non risponde alla domanda "Che cos'è la doppia patologia?", e alla domanda che avete posto, "Che cosa c'è prima, le turbe psichiche o la tossicomania?". Io credo che si deve dividere la riposta in due. In quelli che sono malati e che sono quelli che voi vedete, le turbe psichiche sono precedenti; le turbe psicotiche, border line, perverse, sono anteriori, e il dramma si vede immediatamente nel passato, quello che ho chiamato - a seguito di una deformazione di Lacan - "lo stadio dello specchio infranto": è avvenuto, nell'infanzia del tossicomane, un trauma che non gli ha permesso di costruire la sua identità; in seguito a questo, va cercando nella sua vita, nelle sue condotte di vita, di ricostituire l'identità. E così quando guardiamo l'infanzia di questo soggetto, c'è stata l'obbligazione ludica, perfino di più, l'allucinazione ludica, dove il soggetto è letteralmente obbligato a giocare; poi potremo modificare le turbe del sonno, le turbe della sessualità precoce, con questa scoperta, che c'è del piacere nella sessualità, e che questo piacere può essere ripetuto. Si scopre la ripetizione del bisogno e il bisogno di ripetizione. E ' su questo, secondo me, che noi dobbiamo lavorare. Poi ci sono delle persone che pensano che il livello culturale della società, la musica ad esempio - oggigiorno è il rap, ieri il rock -, certi tipi di musica si fanno entrare in uno schema culturale che porta alla tossicomania. Questo ci indica, a mio avviso, che è più funzionale una psicopedagogia e non un'interpretazione; si richiede una condotta direttiva con dei metodi comportamentali che un impianto di tipo analitico, un ascolto analitico. Allora, che cosa c'è che funziona? Non molte cose.. Quella che esiste oggi mi sembra caduca.

Psicoterapeuta - Allora, che tipo di clinica? La clinica legata alla psicopatologia? Una clinica legata al problema dell'identità? Una clinica legata all'intensità e alla velocità?

C. O. - Sono tutte domande di difficile risposta. Credo che ci voglia tutto. Credo che ognuna di queste proposizioni per ragioni varie - voi sapete che ho definito la tossicomania come un'equazioni a tre parametri, il prodotto, il soggetto e il momento socioculturale - e dunque per queste ragioni il tale o tale metodo riesce meno male che un altro. Bisogna che il soggetto trovi a sua disposizione una catena terapeutica o un ventaglio terapeutico che permetta di orientare verso questa o quella soluzione il tale o tale soggetto. Ma bisogna che ognuno di noi faccia la sua evoluzione culturale. Abbiamo lavorato con degli strumenti erronei su dei soggetti inadeguati e siamo incorsi in fallimenti: quando dico "fallimenti" dico fallimenti dall'uscita dalla tossicomania, che farebbe sì che, se noi fabbricassimo delle casseruole, saremmo da molto tempo in fallimento. Credo che dobbiamo utilizzare i nostri strumenti, ma nello stesso tempo librarci verso una critica massiccia di quello che noi proponiamo. In breve, è a una ricostruzione della clinica quello a cui faccio appello.

Altro psicoterapeuta - La questione dell'identità tossicomaniaca si regge con una relazione con l'oggetto: l'oggetto entra gradatamente a far parte della struttura della personalità del soggetto. Ora, è abbastanza curioso - ed è già stata opportunamente stata tirata fuori la questione dell'ambiguità - vedere se come terapeuti o in nostri tentativi terapeutici non cadiamo in grosse ambiguità. Ho sentito già altre volte Olievenstein e vorrei parlare della "riparazione del danno". Oggi, in situazioni relative a problemi cronici, non si fa altro che tentare una "riparazione del danno", nella speranza che i medicamenti siano sostitutivi. D'altra parte la clinica psichiatrica ritiene di avere già ottenuto dei buoni risultati quando attraverso dei prodotti stabilisce un rapporto cronico con degli psicopatici. C'è una via d'uscita da questa situazione?

C. O.- La questione dell'oggetto - oggetto transizionale nel senso di Winnicot - è il cuore del problema della tossicomania. Ciò che è al cuore della tossicomania non è l'oggetto "droga", ma sono gli effetti che questo oggetto inerte procura al livello della libido, della relazione con il piacere; nella relazione fusionale o almeno qualche secondo, qualche centesimo di secondo il tossicomane si sente riunificato. Allora, è ben vero che una delle posizioni terapeutiche interessanti è di collocarsi al posto dell'oggetto "droga" e di sostituire la sua relazione fusionale a quella che è nata con l'oggetto droga. L'oggetto droga ci ricorda da lontano la masturbazione precedente, ma la difficoltà di uscire da questa posizione fusionale è di restare in questa situazione perversa che riguarda al tempo stesso il terapeuta e l'oggetto droga. Non abbiamo trovato niente di meglio che fare appello all'istituzione e, prima della doppia patologia, abbiamo avuto molto spesso la doppia presa in carico istituzionale e individuale, e questo ha potuto riuscire se, come il mio caro Pascal ( il terapeuta che ha fatto l'ultima domanda), siamo dei terapeuti affermati e che conosciamo la clinica, e abbiamo una famiglia che evita di farsi sedurre dal tossicomane e dal suo oggetto. Ma, al posto di questo, che cosa è successo in realtà? Abbiamo piazzato un'analisi freudiana statica, causalista, là dove c'era l'intensità e la modificazione dello status affettivo; è stato un fallimento, e non poteva che essere un fallimento, perché noi siamo in questa ambiguità della quale cerco di parlare da anni sulla parte della clinica causalista e della clinica dell'intensità. Perché la presenza del terapeuta si possa comparare a quella dell'oggetto "droga" bisognerebbe andare troppo lontano. Lui non può e non vuole farlo, eccetto che farsi sedurre. Allora, che cosa succede in realtà?, perché bisogna parlare della realtà. Bisogna passare attraverso uno stadio dove la cultura analitica deve lasciare il posto a ciò che ho chiamato, in mancanza di meglio, la psicopedagogia, cioè un incontro di un mélange non molto ben formato, un magma, dove le due cose si incontrano e portano ad un compromesso essenzialmente sociale e che non risolve il problema della patologia e del dolore, e non risolve neanche il problema della mancanza, che resta fuori dal problema. Noi non sappiamo trattare la mancanza, almeno non così bene come il metadone, e io posso capire che dei terapeuti abbandonati utilizzino il metadone o il subitex, ma non si può parlare in nessun caso di guarigione, e non si può parlare in alcun caso di uscita.

Psicoterapeuta precedente - La questione che colpisce, nel primo approccio di tanti giovani che hanno il problema della tossicomania, è la questione dell'auto-terapia. La differenza di altre situazioni nei confronti della clinica psichiatrica è che ci troviamo di fronte a persone che hanno stabilito una relazione immediata con un determinato prodotto in qualche maniera auto-terapeutico. Si crea dunque un cerchio molto immediato e chiuso, sul quale è particolarmente difficile entrare. Nel caso ad esempio delle psicosi sono gli psichiatri che determinano la scelta dei farmaci utili al paziente. Di fronte a questo aspetto salvifico, come si fa invece a intervenire su di una persona che ha già acquisito - o almeno, così crede - la soluzione del problema, è già in possesso della soluzione? Noi ci troviamo in questi casi molto alla periferia. Chiedo se Olievenstein ha qualche suggerimento.

C. O. - Quando si parla di auto-terapia, ci si domanda di quale auto-terapia si tratti, se del curante o del paziente. Perché ci troviamo di fronte ad una patologia fra virgolette, dove il soggetto ne sa tanto quanto, se non di più, del terapeuta, soprattutto nella relazione con il piacere. Il secondo elemento in questa autoterapia è la cinetica, la cinetica del paziente - "Voglio tutto in fretta e subito", ivi compreso "sedurre il mio terapeuta" -, e la cinetica del terapeuta, che è sempre in ritardo di una stazione, perché vuole capire là dove non c'è altro che seduzione. Sono sempre rimasto molto colpito, quando posso seguire il circuito di un tossicomane in più istituzioni, del fatto che il discorso del tossicomane può cambiare: vuole dare il discorso che pensa di soddisfare il suo nuovo terapeuta o la sua nuova istituzione. E' un mercato di imbroglioni; e l'uscita è: primo, non essere mai soli con un tossicomane, avere sempre un riferimento istituzionale o di un altro collega, e d'altra parte la costruzione di una sorta di rete, ma là entriamo ancora in un altro capitolo. Non c'è salvezza sociale che nella legge. Ora, la psichiatria si è costruita ed è suo onore non diventare controllore della società. E attualmente io penso che negli ambienti in cui ci si occupa di tossicomani c'è un grande dibattito: forse che il nostro ruolo, siccome la tossicomania ci fa paura e non sappiamo trattarla, è di far sì che la tossicomania deve superare l'addomesticamento sociale o, al contrario, sono i tossicomani selvaggi, quelli che non vengono nelle istituzioni, che ci aiuteranno forse a costruire qualcosa?

Maricla Boggio - Vorrei chiedere al professor Olievenstein se la tossicomania è da considerare una malattia esclusivamente legata alla nostra epoca. In altre parole, quando non c'era la droga, come si sviluppava la patologia che adesso ricorre alla droga? Veniva usata qualche altra sostanza o si produceva un qualche tipo di comportamento sostitutivo?

C. O. - Mi sembra che bisogna legare il bene sociale all'apparizione della velocità, perché prima della velocità, prima dei missili, prima dei treni, prima degli aerei, c'era una quantità di sostituzioni, e prima di tutto l'alcool, soltanto che avvenivano ad una velocità differente, e noi ci trovavamo davanti alla situazione o ci troviamo piuttosto che allo stesso tempo dobbiamo tener conto della velocità e dell'antichità dei cammini che portano alla tossicomania. Sfortunatamente è così, ma l'uomo ha sempre cercato di avere dei prodotti di sostituzione. Gli indiani ritengono che i peli del dorso del Dio Visnù siano equivalenti alla cannabis.

Terzo psicoterapeuta - Mi sembra che molte delle teorie attuali sulle tossicomanie siano costruite su di una clinica da eroinomane. Predominante la riflessione sul soggetto che usa l'eroina, e quindi mette in rilievo l'aspetto della dipendenza. Mi chiedo, anche in relazione a quello che si vede più recentemente in relazione al servizio sulle tossicomanie, se non ci sia un fenomeno che è nuovo, cioè più attuale. Lei diceva che il tossicomane cerca un centesimo di secondo per sentirsi unificato. L'impressione - quello che si vede, anche in relazione a nuove droghe che si pongono su un altro piano - è che, per chi usa droghe, c'è un secondo di esistenza, attraverso qualcosa che gli dia la possibilità di sentirsi non tanto uno, quanto esistente. Mi chiedo se non si possa pensare ad una problematica, riprendendo il discorso dello specchio infranto, in cui in realtà queste persone non hanno mai visto lo specchio, neanche a pezzi, che non ci sia stato mai un rimando di immagine, e quando gli viene proposta in una relazione, provoca quello che ha provocato ai selvaggi quando hanno scoperto se stessi, che in un primo tempo si sono spaventati, e ne prendono le distanze. Chiedo se questo potrebbe essere un punto per partire e costruire una clinica nuova, che risponda di più alle caratteristiche di tossicomanie dove il termine "addiction" fosse veramente più adatto.

OLIEVENSTEIN - Sì e no. Sono desolato, ma è sì e no. E' vero che noi assistiamo, in relazione agli eroinomani, a una modificazione del senso della dipendenza. Con l'eroina è il piacere; con l'addittivo è l'anestesia, non esistendo un momento, ma anestetizzato da che cosa? La mancanza di conforto sociale, il rigetto sociale, la mancanza di identificazione paterna - e potremmo moltiplicare la causalità -; ed è vero che questo tipo di persone vanno massicciamente nelle istituzioni, ma non si possono assimilare a questo le migliaia di giovani che nelle serate "rave" prendono dell'extasy: non è patologico, questo, è una condotta trasgressiva degli adolescenti, come vent'anni fa c'era la cannabis, fa parte della nozione di comportamento, ma a meno di accettare di essere all'interno di una regolazione sociale, non è una patologia, è una relazione con la trasgressione, con il piacere, ma il piacere è secondario, è secondario a quello che ho chiamato l'anestesia, "non voglio sapere, voglio scoppiare, voglio danzare". E la musica attuale, fatta in Francia, è tipica. Per la classe media francese è la "techno", è il piacere, e per la gente delle minoranze, dei neri, dei nordafricani è il "rap", con delle parole di una violenza estrema, e tutti prendono la stessa droga. Dunque è vero quello che tu dici, ma è anche nello stesso tempo una contraddizione, e non so dove questa si fermi, solo che so che il mio mestiere è fondamentalmente di alleviare delle situazioni di dolore. Un ragazzo di diciotto anni che va a ballare e prende l'ecstasy subisce un dolore o vive una libertà? Là ancora dobbiamo rivedere i nostri obbiettivi, ridefinire il nostro oggetto di lavoro; per esempio è possibile che dei genitori ci portino dei ragazzini di diciassette diciotto anni che cominciano a fumare o prendono dell'ecstasy o delle anfetamine, e ci chiedono di curarli. E io capisco " Curi noi". Perché quando esamino il ragazzino o la fanciulla, non hanno niente di patologico, dunque bisogna ammettere che ci sono delle persone che non hanno nessuna patologia e che prendono dei prodotti, e altri che prendono gli stessi prodotti e che invece manifestano delle psicopatologie.

Francisco Mele - Io credo che in questi ultimi anni sia cambiato la scena del fenomeno tossicomanico, per cui le categorie di lettura devono anche comprendere i concetti della filosofia politica, della filosofia morale e della storia delle istituzioni. Gli anni settanta erano gli anni in cui l'utopia e l'ideologia avevano raggiunto i momenti più alti nel conflitto sociale. Si voleva cambiare la società e si credeva di avere gli strumenti per farlo. La patologia dell'utopia e dell'ideologia ha portato, secondo me, una fascia di giovani a giustificare l'uso delle droghe. Oggi invece, senza utopia e senza ideologia - intesa come rappresentazione della società -, questi giovani giustificano l'uso delle sostanze attraverso motivazioni meno nobili, quali la noia, l'esperimento, eccetera. Negli anni settanta le correnti filosofiche, psicoanalitiche, affermavano la "morte di Dio" e, come conseguenza di essa, anche la scomparsa del soggetto attraverso l'uccisione del "Padre". Ciò porta al malessere, che è il "male dell'essere". Penso che la psicoterapia e la nuova clinica debbano riprendere il rapporto con Platone e con la filosofia.

C. O. - Non sono un avversario di Platone, ma alla fine è ben platonico quando ho un soggetto davanti a me. Io penso, come te, che bisogna ripensare alle nostre basi teoriche e alle nostre basi ideologiche, ne sono intimamente convinto. Ma non so se è soltanto un'arma per pensare e non un'arma per lavorare; anche qui ci troviamo di fronte ad una dicotomia. Io penso che la risposta sociale debba essere tale da confermare la politica della riduzione dei rischi; la scelta della sostituzione come sola uscita istituzionale rimette in piedi l'ideologia. Io non sono politicamente impegnato, ma ritengo che quello che sta avvenendo tra le periferie delle grandi città e i centri delle città è un combattimento tra la vita e la morte per la presa del potere, perché alla fine non ci sono solo le tossicomanie, c'è lo sviluppo della violenza, ci sono i crimini sessuali, eccetera eccetera, che fanno paura alla classi dirigenti, con delle varianti da un paese all'altro. Ma noi siamo nel cuore di un conflitto quando vedo che i "medici del mondo", una struttura che amo molto, sono presenti nelle serate "rave" per parlare del pericolo dei prodotti: mi sembra una delegazione per controllare le persone, anche se loro hanno degli atteggiamenti soft. Siamo comunque di fronte a un vero combattimento ideologico, e la scelta tra le parole tossicomania e addizione è lontano dall'essere convincente. La proposta terapeutica non è la stessa per un tossicomane e per un "addetto" ( dipendente); dunque questa tua domanda arriva in pieno dibattito, e la risposta dei professionisti dipende da molte cose. Sfortunatamente il solo modello alternativo che ci propongono è il modello medico, che vuol fare della tossicomania una malattia come le altre, ed è in questo quadro - io credo - che la concezione della doppia patologia si sta sviluppando. Sono effettivamente dei malati sociali, inadatti alla società. Tu leggi Platone, ma sfortunatamente si tratta di Nietzsche, che è più terribile.

Una terapeuta di"Fermata d'autobus" - Io è da stamattina che mi pongo una questione: di quale clinica, in particolare di quale clinica è il paziente che abbiamo a Trofarello, dove - mi sembra - i casi siano sempre più difficili, dove la componente psichiatrica mi sembra sempre più massiccia, e dove io con i colleghi tutti i giorni ci troviamo a che fare con dei casi che ci fanno vivere - io penso - dei momenti di grande impotenza, dove spesso ci poniamo delle domande, abbiamo la sensazione di lavorare come con la tela di Penelope, cioè di avere la sensazione di ricostruire, di riuscire a fare un minimo di progetto, poi per qualche motivo il nostro progetto viene invalidato. Mi rendo conto che quelle che potevano essere in passato, possiamo dire, delle direttive, oggi come oggi debbano essere riviste. Il concetto della legge, l'applicazione della legge, l'intervento di lavoro, gli strumenti di lavoro, penso che sia un discorso che, sia nella nostra istituzione sia con i servizi con cui noi collaboriamo, debba essere impostato e portato avanti. Per cui spesso mi chiedo con questi casi quali strumenti clinici possiamo usare, direi proprio nell'ottica di una riduzione del danno.

C. O. - Io amo molto Trofarello, e prima "Il porto", dove c'è stato storicamente un primo dibattito tra comportamentisti e psicanalisti. Possiamo dire che gli psicanalisti hanno vinto, cosa che non ha regolato i problemi al di là di ciò, poichè gli operatori erano confrontati e sono tuttora confrontati a una doppia posizione che mi sembra sempre contradditoria: da una parte sono i garanti della legge, hanno il potere di esclusione e così via, e dall'altra parte sono di cultura psicanalitica e si sforzano di fare un lavoro di interpretazione e di ascolto, diciamo sono benevoli. La benevolenza è in contraddizione con la legge. Poco a poco emerge dall'esperienza di Trofarello - è lontano dall'essere fatto, ma la direzione è stata presa - di cessare quello che era diventato quasi un imbroglio ( una truffa) e di utilizzare sempre di più la psicopedagogia, che permette da una parte forse l'interpretazione - ma che non è lo strumento maggiore -, per fare posto ad una direttività delle situazioni. E di fronte a questo stato - voi lo sapete bene quanto me, Egle tu lo sai bene quanto me - a più riprese noi abbiamo affrontato il problema della cronicità, che non abbiamo risolto, ma che è un cammino verso il quale tendiamo tutti a lavorare e le mie supervisioni sono in questo senso, per fare posto un po' per volta ad un progetto terapeutico minimale, meno minimale e ancor meno minimale e che passi sempre più attraverso un'individuazione dei progetti terapeutici. C'è la legge collettiva e poi c'è l'individualizzazione del procedimento, ma c'è un pericolo, ed è di abbandonare la nozione di individualizzazione al profitto essenzialmente e sostanzialmente della legge, dunque bisogna trovare un po' per volta l'equilibrio tra queste due esigenze; per me sarebbe già un progresso se l'interpretazione analitica statica perdesse il suo posto.


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“Io Diviso/Io Riunito”
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