Interviste

La medicina può contribuire a creare la vita
Giovanni Berlinguer
Martedì, 11 maggio 1999.

 

Da poco nominato presidente del Comitato Nazionale di Bioetica, Giovanni Berlinguer mi riceve nella sua biblioteca dagli alti scaffali bianchi, che lui stesso ha costruito, per il piacere, penso, di dare una casa ai libri che accompagnano la sua vita. Ritengo che sia importante porre a lui domande in collegamento con quelle a cui hanno risposto persone di diverso indirizzo sul piano delle convinzioni personali, ma dalle analoghe finalità. Cominciano ad emergere analogie di importanza assoluta per la realizzazione di una civile convivenza, come la necessità di una effettiva pari dignità fra gli individui, la necessità di porre in primo piano l'interesse della persona rispetto alle proprie personali preferenze o ai propri principi, la necessità di un'educazione che non sia soltanto finalizzata alla tecnologia, ma al rispetto dell'altro. Sono determinanti il ruolo e la specificità dell'ambito di competenza di Giovanni Berlinguer ad offrire attraverso le risposte un ulteriore complesso di riflessioni sui temi proposti.

F. M. - Vorrei farti alcune domande su dei temi che toccano il tuo operato. Di altri aspetti - come del "Welfare", di cui ti occupi - non ti chiederò, anche se tale argomento è legato a quanto sto sviluppando in questo libro, il cui principio-base è determinato dal fatto che l'individuo non può essere pensato da solo, essendo ciascuno in un contesto, costituito in forme connesse ed intrecciate dalle dinamiche familiari e da quelle istituzionali. Ci sono individui che paiono rimanere emarginati, fuori dalle istituzioni, mentre altri riescono ad entrarvi. Qualcuno poi si inserisce in istituzioni parallele a quelle ufficiali: chi non entra, ad esempio, nel sistema scolastico, può realizzare una sua "carriera" all'interno del carcere. Ci sono poi individui che riescono ad appartenere a sistemi opposti - come ad esempio i due citati, della scuola e del carcere -, passando da un contesto ad un altro senza entrare in conflitto con le istituzioni e neppure con se stessi.
Vorrei che per prima cosa tu mi dicessi quello che pensi della funzione della medicina oggi, e in particolare il tuo pensiero in relazione al mantenimento in vita di persone in condizioni di irreversibilità, e in relazione al prelievo degli organi.

G. B. - La novità principale sta nel fatto che la medicina, in rapporto alla vita, oltre che curarla - ciò che oggi in molti casi è possibile, prima lo era assai meno - può contribuire a crearla, attraverso la procreazione assistita; si può anche contribuire a prolungarla oltre al limite naturale, attraverso supporti tecnici, farmacologi e strumentali. Può cioè mantenere in vita con mezzi artificiali. E' evidente che questi sviluppi creano nuove opportunità, che prima non esistevano, ma anche grandi responsabilità; quindi c'è l'esigenza di stabilire alcuni criteri morali, che non sono soltanto quello di non nuocere (il vecchio detto medico "primum non nocere"), ma anche quello di utilizzare queste possibilità in rapporto alle esigenze di autonomia e di giustizia degli esseri umani. Si prospettano, sul piano morale, anche zone più complesse, quelle che rappresentano casi limite. Per fare un esempio: si deve mantenere in vita un neonato encefalico, che nasce senza cervello, e che è destinato a morire molto rapidamente ? Oppure, all'altro estremo: si deve mantenere in vita un soggetto che sta in coma profondo e irreversibile? Su tali quesiti nascono discussioni etiche e scientifiche, che molto spesso si intrecciano.
Alla domanda se è ancora valido l'impegno assoluto di mantenere in vita, io risponderei sì, ma bisogna anche specificare che cos'è la vita. C'è una corrente, per esempio quella di Peter Singer, un bioetico australiano, il quale sostiene che bisogna partire dal criterio della qualità di vita: stabilire qual è la qualità di vita accettabile, quando si dovrebbe intervenire con ogni sforzo per mantenere la vita, e quale invece non varrebbe questo impegno, perché non sarebbe moralmente o socialmente accettabile. Singer spinge all'estremo questo criterio, e dice per esempio: ci sono neonati che vengono al mondo con malformazioni o altri problemi: sul loro mantenimento in vita dovrebbero decidere i genitori entro due settimane dalla nascita; non immediatamente, perché essi stessi devono capire se se la sentono o no di affrontare una vicenda che può essere molto coinvolgente, molto difficile. Anche nel campo delle cure, c'è chi propone di razionarle, di distribuirle selettivamente in rapporto alla qualità di vita che ciascuno possa raggiungere. Io sono molto critico verso queste posizioni.

F. M. - La riduzione del danno è ancora un altro concetto.

G. B. La riduzione del danno obbedisce a un'altra logica. Si parte dall'esistenza di un danno - per esempio la tossicodipendenza - e si tende a minimizzarne le conseguenze, per esempio la possibilità di trasmettere l'aids mediante siringhe infette. Ciò è perfettamente morale, perché ci si basa sul principio della solidarietà. Può porre problemi etici a coloro che dicono: "minimizzare vuol dire riconoscere", ma questo vuol dire negare la realtà, sovrapporre i propri principi, o meglio le proprie preferenze - ad esempio, essere a tutti i costi contro la droga - all'interesse di colui che viene danneggiato, e anche della convivenza sociale. Invece nel caso delle cure si parte dal principio del razionamento - cosi viene chiamato - usando fra l'altro un termine assolutamente improprio perché il razionamento ha un'origine militare, di guerra...

F. M. -Mi sono talvolta trovato a riflettere sulla vicinanza del concetto di guerra con quello di sanità.

G. B. - In questo caso si è mutuata una parola dal linguaggio di guerra, però il suo uso è assolutamente inappropriato. Il razionamento in tempo di guerra significa distribuire equamente delle merci, che sono scarse, senza escludere alcuno, e anzi privilegiando i più deboli: razioni speciali vengono date ai bambini, agli anziani, ai malati, ai lavoratori che svolgono attività pesanti. Per le cure, si vuole razionarle non per inclusione, ma per esclusione, stabilendo chi deve essere curato e chi no. L'applicazione del principio è esattamente opposta; e il rischio che come metro sia usata la presunta qualità di vita è gravissimo. Chi decide infatti la qualità di vita? Forse, con un giudizio oggettivato, si presume che un handicappato motorio o sensoriale abbia una qualità di vita inferiore. Ma perché? E lui, che ne pensa? Hawckins, il grande fisico e matematico inglese, un handicappato quasi totale, aveva diritto a essere curato o no? Non consideriamo soltanto quel che avrebbe perso la società, ma quello che avrebbe perso lui, nell'essere condannato a deperire, anziché essere aiutato dalla medicina e da supporti tecnici a crescere, a sviluppare la sua personalità. .

F. M. - Di solito la qualità di vita è un argomento che si pongono i paesi ricchi; i paesi poveri non pensano alla qualità della loro vita; vogliono sopravvivere prima di tutto, e questo è il principio che si mette - come dicevi tu prima - in discussione: chi decide la qualità della vita di un individuo, senza che questo sia stato interpellato?

G. B. Sono gli altri che decidono. Questo avviene da tempo. Oggi però questi criteri si cerca di renderli espliciti, sia pure in modo, secondo me, distorto. Il fatto è che una selettività nelle cure esiste normalmente, implicita e occulta. Per esempio, a Roma si è documentato che il tempo di attesa per un trapianto di rene per chi è laureato è la metà dell'attesa di coloro che hanno soltanto un'istruzione di base. Nessuno ha stabilito formalmente che c'è questo tempo di attesa differente, ma il fatto che uno sia colto, conosca, abbia una rete di rapporti, appartenga agli stessi ceti sociali dei medici lo pone, quasi automaticamente, in una condizione di privilegio. Che si discuta è bene, che i criteri siano resi espliciti altrettanto, però bisogna che tali criteri siano basati fondamentalmente sull'equità, e non su criteri esterni e selettivi rispetto alle persone.

F. M. - Quando tu parli di equità, sei d'accordo con quello che John Rawls definisce "principio di equità" come giustizia?

G. B. - Fondamentalmente sì. Io mi richiamo anche ad Amartya Sen, agli sviluppi che lui ha dato nel campo dell'economia: creare un'economia che non sia soltanto flusso di moneta, produzione o circolazione di merci, ma che sia anche un'economia della vita. Nel campo della salute c'è una grandissima discussione in corso sul problema dell'equità. Si dice giustamente "equità", anche se è stata usata spesso la parole "eguaglianza", nel campo della salute. Ma questo è un nonsenso, innanzitutto sul piano biologico. La salute di ognuno è diversa da quella di ogni altro, per ragioni genetiche, ambientali, culturali, comportamentali.. Quello che bisogna raggiungere non è l'uguaglianza, ma la possibilità per ciascuno di arrivare al massimo di livello di salute da lui raggiungibile. Dare quindi l'opportunità di vivere in salute. Tutto ciò che ostacola questa possibilità non può che subire un giudizio morale negativo.

F. M. - Qui si pone sicuramente una tensione sociale tra quello che la società può dare come salute, quello che l'individuo chiede alla società, e quello che l'individuo pensa che sia dannoso o no per lui. Perché si può avere un tipo di educazione alla salute: la persona lo sa, a livello conscio, ma poi agisce con comportamenti contrari alla salute, i cui effetti negativi la società deve poi sobbarcarsi, come il fumo, l'alcool, la droga e così via.

G. B. - Quello che hai detto è giustissimo. Ci sono due aspetti. Il primo riguarda ciò che gli individui possono chiedere alla medicina e all'assistenza. E' opportuno distinguere il bisogno di salute dal desiderio di salute, o di bellezza. Anche questi desideri rientrano certamente nelle facoltà umane e nella libertà umana, ma non li si può chiedere alla collettività. L'altro riguarda quanto della salute dipende da fattori genetici, da condizioni ambientali, dal lavoro, dai comportamenti personali. In che senso si può parlare di equità in rapporto a queste condizioni ? Io penso per esempio che, quando c'è uno stile di vita scelto liberamente - per esempio, fare l'alpinista o andare per gli oceani, come Giovanni Soldini e Gabrielle Autissier - se questi individui hanno un incidente non si può parlare di un'ingiustizia nei loro confronti. Anche in relazione ad abitudini più semplici - quali la nutrizione, il traffico, il ricorso a sostanze chimiche, e altri rischi - si può parlare di inequità soltanto se questi comportamenti sono scelti liberamente. Ma spesso sono condizionati o coatti: per esempio, la scelta di fumare è in parte libera. Ma esiste, ed è stata svelata negli ultimi anni e nascosta per lungo tempo, una dipendenza dalla nicotina, come dall'eroina; ed esiste un'induzione al fumo. Oggi le multinazionali del tabacco, mano a mano che diminuisce il consumo nei paesi sviluppati, impongono questo stesso consumo nei paesi poveri, attraverso una pubblicità martellante e attraverso l'Organizzazione Mondiale del commercio, che giudica un reato contro il libero mercato il fatto che un paese povero voglia ostacolare l'entrata delle sigarette. Questa situazione che si sta creando è iniqua e ha dimensioni macroscopiche: si prevedono infatti decine di milioni di decessi, che potranno verificarsi in questi paesi. Naturalmente, c'è poi tutto il tema delle condizioni ambientali e delle condizioni lavorative, in cui è chiaro che la volontà personale conta, ma sempre meno rispetto all'oggettività delle condizioni in cui uno vive e lavora. .

F. M. - Credo che il medico - come dispensatore e curatore della salute - abbia una responsabilità maggiore nei confronti di ciascun individuo che viene curato da lui; ma d'altra parte è come se l'individuo scomparisse, di fronte al medico e alla struttura sanitaria di cui il medico è il rappresentante, in quanto viene assoggettato a decisioni che lo riguardano ma che vengono prese da persone che non lo coinvolgono in quanto soggetto, decisioni nelle quali non può intervenire. A questo punto, la formazione del medico, la sua etica, la sua morale, i suoi principi devono entrare in un sistema che trascende le sue prime scelte - quando aveva deciso di fare il medico -; lui stesso entra in una sorta di meccanica, in un ingranaggio, in un sistema tale che volontariamente o involontariamente può portare a decisioni che sono contro o a favore della salute dell'individuo curato.
Come viene preparato il medico per affrontare queste sfide? C'è una differenza di comportamento nei confronti dei malati, da parte di medici che lavorano in paesi ricchi e di medici che operano in paesi poveri? Dato che tu ti occupi di bioetica, stai certamente lavorando su questi problemi, ma non so se tutti i medici fanno bioetica...

G. B. - No. Ho scoperto, tra l'altro, che, nel corso per il diploma di "infermiere dirigente" dell'Università La Sapienza di Roma, c'è una materia che si chiama filosofia morale; ma non c'è per i medici, cosa che mi ha stupito e indignato. Esempi di aberrazione medica purtroppo sono numerosi, a partire dai medici nazisti che sperimentavano nei lager. Sono venute alla luce - negli ultimi episodi come la sterilizzazione coatta delle donne considerate minorate psichiche in Svezia - le prove che i medici hanno assistito, partecipato e perfezionato la tortura durante molte dittature dell'America Latina. Ci sono medici negli Stati Uniti che prendono parte all'uccisione dei condannati a morte o che perfezionano i sistemi delle esecuzioni. Però, fortunatamente, queste sono eccezioni, possono essere riconosciute e combattute. Per esempio, dopo le aberrazioni naziste sono stati stabiliti dei codici di sperimentazione, che sono generalmente rispettati in tutto il mondo. Non si può sperimentare senza consenso del soggetto, deve esserci un beneficio per il soggetto, o un atto volontario di partecipazione molto motivato o riconosciuto, e così via.
Invece in un altro campo - quello della vita quotidiana - non credo che ci sia una differenza molto sostanziale e concettuale tra l'agire dei medici nei paesi poveri e l'agire nei paesi ricchi. Quel che è molto diverso sono le patologie, le condizioni concrete. Il medico dovrebbe al tempo stesso essere curatore, terapeuta, e conoscere inoltre le cause e le condizioni di insorgenza delle malattie, e le condizioni sociali e psicologiche del paziente. Questo è necessario sia se le malattie sono quelle da povertà - le gastroenteriti infantili, per esempio, o la denutrizione nei paesi poveri - oppure le cardiopatie o le malattie da malnutrizione che esistono nei paesi ricchi. Avendo come suo compito preminente il curare, il medico dovrebbe perlomeno trasmettere ai servizi sanitari le sue conoscenze sui malati per avviare la catena degli studi epidemiologici, ambientali e psicologici, che permettano a lui o ad altri di agire sulle cause, di agire sui meccanismi più complessi che determinano le malattie. Altrimenti diventa come quei chirurghi - io ne ho conosciuti - che fanno trapianti d'organi, e ai quali, se chiedi: "Ma perché questi pazienti sono arrivati al punto in cui solo un trapianto d'organo può salvare loro la vita?", non sanno rispondere. Se invece si analizzasse quello che è accaduto prima al malato, e se era possibile evitare il trapianto, col prevenire la malattia o col curarla tempestivamente - si potrebbero risparmiare vite umane, soldi, fatica, e soprattutto fare della professione medica qualche cosa di molto più nobile, come è accaduto e come accade in molti campi. Su questo terreno siamo ancora molto indietro, anche perché tutta la medicina viene spinta verso una concezione parziale, è un intervento parziale sull'individuo umano più che sulla sua totalità.

F.M. - Certi medici non riescono ad avere un rapporto veramente diretto con il paziente, mentre tutti e due - medico e paziente - ne hanno bisogno; si sa che un paziente ha bisogno della parola del medico, e molti vanno dal medico non tanto perché stanno male quanto perché hanno bisogno di sentirlo parlare; ci sono delle esperienze soprattutto di donne che stavano per partorire, per le quali, se non c'era il medico di fiducia, il parto era a rischio; invece, appena entra il medico di fiducia, sono state evitate delle complicazioni. La tecnica elaborata in questi ultimi anni - che ci aiuta, ma che ci allontana anche dai rapporti diretti - ridefinisce anche il ruolo del medico, che diventa un bio-ingegnere più che un medico. Che cosa si sta facendo per arginare questo rischio, se rischio c'è ?

G. B. - Bisogna prima di tutto vedere il pro e il contro della tecnica. Il primo strumento che ha avvicinato e allontanato il medico rispetto al paziente è stato lo strumento simbolo della professione medica: lo stetoscopio. L'immagine più comune del medico lo raffigura con questo strumento al collo. Lo ha inventato un grande medico francese, Laennec, per sentire dentro e per sentire bene quel che palpita all'interno del corpo, i movimenti polmonari e cardiaci nel torace del paziente. Però esso ha anche allontanato il paziente dalla auscultazione del medico, cioè dal contatto pelle a pelle. Poi gli strumenti si sono moltiplicati, fino al punto che si arriva perfino a curare una persona senza mai vederla, senza sapere che volto abbia. I vantaggi della tecnica sono che si può diagnosticare e curare meglio. Lo svantaggio è che questo non ha senso per molte malattie, le quali hanno origine da un sistema di rapporti, e sono molto più influenzati da un sistema di rapporti che non da un intervento tecnico o farmacologico.
C'è poi un'altra questione, che molti esprimono con la frase "Non esiste il malato, esistono le malattie". In parte è vero, perché l'essere giunti a classificare le malattie, a determinare una tipologia standard delle malattie, a distinguere le malattie una dall'altra, ha rappresentato un grande progresso. Le scoperte dei microbi e dei virus e l'individuazione di rimedi specifici per determinate malattie microbiche o virali è stato essenziale, ed è tuttora essenziale. Se si ha un caso di peste, oggi si fa la diagnosi, si somministrano degli antibiotici e si guarisce. Però al tempo stesso ogni malato è diverso dall'altro, e il concorso del malato al riconoscimento e alla cura è assolutamente fondamentale. In questo campo c'è stato un grande progresso bioetico, con riconoscimento del principio che si chiama "consenso informato", che è basato sull'autonomia del paziente. Chi decide un trattamento non deve essere il medico; il medico lo propone, in base alle proprie conoscenze e alla propria responsabilità, e il paziente può acconsentire o può non acconsentire, può accettare quella cura e anche chiedere che non vi sia alcuna cura. L'espressione "consenso informato" mi sembra anzi insufficiente a definire questo principio di autonomia, perché presuppone che uno decida e l'altro accetti; si dovrebbe parlare invece di partecipazione consapevole. Però, come spesso accade, questo principio viene stravolto, diventa alla fine un modulo cartaceo che il malato deve riempire per dire che accetta una serie di trattamenti.

F.M. - Questa prassi presuppone già che tutte le malattie siano comunicate al paziente.

G.B. - Certo, questa è la base assoluta, è un diritto che viene considerato oggi innegabile. Il titolare dell'informazione sulla malattia è colui che ne soffre. Non si può pensare che possa delegare questa titolarità né al medico né ai parenti. Uno può anche chiedere al medico di non essere informato - c'è anche questo diritto -, ma non è pensabile - purtroppo accade nella pratica - che il medico non dica al malato qual è la sua malattia. Naturalmente questo dire implica anche una capacità di spiegazione, di incoraggiamento, la capacità di evitare la brutalità che accompagna certe diagnosi, di lasciare una speranza, e così via...

F.M. - Questo si chiama "il colloquio". Il medico informa il paziente di qualcosa che può essere tragico, una malattia. Questa capacità, che è anche un tecnica - non è un fatto lasciato alla maggiore o minore simpatia che può suscitare il medico -, si impara anche nel percorso della formazione del medico nella facoltà di medicina?

G.B. Oggi questo accade un po' di più, ma in un modo assolutamente insufficiente. Io sono sempre rimasto molto colpito, fin da quando sono entrato nella facoltà di medicina mezzo secolo fa, dal fatto che le prime lezioni a cui ho assistito, le prime attività che ho svolto per apprendere riguardavano l'anatomia. Sono stato posto immediatamente di fronte a un cadavere, per sezionarlo e individuare le cause della sua morte, o per ricostruire la struttura del suo corpo. Cioè, l'insegnamento nasce da un corpo morto. Dopo l'anatomia si studia la fisiologia, cioè si scopre che questo corpo funziona, che ha degli organi e degli apparati con funzioni specifiche. Successivamente si comincia a studiare la patologia, e solo negli ultimi anni si affrontano anche quelle discipline che mettono in contatto questo individuo con gli altri, la psicologia e le malattie mentali, l'igiene, la medicina legale e così via. Adesso qualcosa è cambiata nel curriculum, ma la struttura fondamentale è rimasta questa. Ci sono però esperienze molto interessanti di insegnamento medico che partono dal contatto con i malati, dall'insegnare agli studenti come fare un'anamnesi, come ricostruire la storia di un malato, come comprendere il suo stato d'animo e la sua condizione. Questo presuppone una capacità di ascolto, da parte del medico e del giovane studente, e presuppone un colloquio, che ha anche un valore terapeutico, come tu accennavi.

F.M. - Si parte dal presupposto che l'ascolto da parte del medico presuppone che questi non abbia la pretesa di sapere in precedenza tutto in relazione alla malattia; vuol dire che il paziente può dare delle informazioni anche sulla diagnosi, e il rischio della delega che si dà alle volte al medico, è quella di pensare che lui è una specie di dio, che dà la vita e toglie la vita.

G.B. - Vorrei aggiungere una cosa: l'importanza del rapporto psicologico, e anche affettivo, naturalmente con il dovuto distacco, tra il medico e il malato.

F.M. - Lévinas, rispetto a questi rapporti, parla dell'amore senza eros.

G.B. - Questo rapporto sta anche in Ippocrate, il quale diceva: "Il medico è il maestro dell'arte, combatta la malattia il medico insieme col malato". E' un rapporto intuitivo, nella storia della medicina. Adesso ha avuto una prova scientifica, non solo nella numerosa grande casistica in cui si sottolinea quale sia stata e quale possa essere la maggiore probabilità di cure efficaci quando esiste questa partecipazione, ma anche nelle ricerche bioetiche di base. Si è documentata la correlazione fra i tre sistemi di regolazione dell'organismo umano: il sistema nervoso centrale e periferico, il sistema ormonale, e il sistema immunitario, per mezzo del quale il soggetto si distingue e si contrappone a ciò che è nocivo, cioè un sistema di riconoscimento e di reazione...

F.M. - Un'identità.

G.B. Certo, questi sistemi sono le basi dell'identità personale, anzi dell'identità di specie e dell'identità individuale. Questi tre sistemi, che costituiscono appunto l'identità individuale e regolano l'intera vita dell'organismo normale e anche in parte la patologia, contrastandola se possibile, sono in strettissima relazione tra loro, ed è il sistema nervoso centrale che li comanda. L'espressione "comanda" è assolutamente impropria, è meglio dire che il cervello influisce in maniera notevole sul funzionamento degli altri sistemi. Il fatto che la resistenza alle malattie tumorali sia maggiore quando c'è volontà, conoscenza, capacità di reazione psicologica, si collega a ricerche biochimiche, fisiologiche e fisiopatologiche ormai molto vaste su questo sistema di inter-relazioni, che crea anche supporti attivi per la terapia.

F.M. - Per chi non vuole vivere, qualunque cura non serve. E come si pone il medico di fronte a chi non vuole piò vivere, e chiede che sia "staccata la spina"? Come si deve comportare il medico di fronte a colui al quale, in una situazione di irreversibilità, si può "staccare la spina" perché i suoi organi vengano donati?

G.B. - La volontà di vivere è fondamentale. Vorrei aggiungere qualcosa in relazione al fatto di "staccare la spina" e al coma. Si è discusso a lungo che cosa sia la morte. E si discuterà ancora a lungo, sul piano scientifico, filosofico, teologico e antropologico. Però c'è l'esigenza, e non solo in relazione al prelievo degli organi, di una valutazione pratica della morte, di valutare la liceità o meno, l'opportunità o meno di continuare a mantenere in vita artificialmente un corpo che non ha più la capacità di farlo con le proprie forze. Si è arrivati, quasi universalmente, a definire il concetto di morte cerebrale, che è l'arresto irreversibile di tutte le funzioni del cervello, non solo della corteccia, non solo delle funzioni superiori da cui dipende la coscienza, ma di tutto il sistema di regolazione dell'organismo. Questa definizione, che può essere discutibile, viene verificata attraverso l'elettroencefalogramma piatto per un periodo determinato di ore, attraverso la mancanza dei riflessi anch'essa confermata a distanza di tempo, e da un'altra serie di parametri soprattutto neurofisiologici. Questa è una situazione diversa dal coma, perché il coma è perdita della coscienza, è perdita della funzione corticale, ma non è perdita di tutte le funzioni dell'encefalo. Dal coma si può tornare indietro, dalla morte cerebrale non è ancora tornato indietro nessuno. Ora, si può ancora discutere se questa rappresenti la definizione ultima della morte. Qualcuno obietta per esempio che sarebbe sufficiente la perdita irreversibile della coscienza, perché in questo caso la persona scompare. Altri obiettano in senso opposto, che anche con la perdita delle funzioni dell'encefalo ci sono meccanismi che continuano a funzionare, cellule nervose che potrebbero garantire qualche comunicazione. Però mi sembra che, dal punto di vista pratico, questa definizione regga e che risolva alcuni dei problemi che ponevi.

F.M. - Sì, questa è stata una scoperta degli ultimi vent'anni.

G.B. - Sì, è una scoperta che ha esattamente vent'anni. Più che una scoperta, è stata una formula di garanzia. Anche le garanzie procedurali sono rilevanti. Le leggi dicono, per esempio, che non devono essere le stesse persone che procedono al prelievo degli organi ad attestare la morte cerebrale, devono esserci tre medici esterni con diverse competenze specialistiche.

F.M. - I limiti della sperimentazione scientifica. Tu hai toccato queste diverse ricerche che si sono fatte. I limiti sono sempre un problema per la scienza: se li impone un potere politico, se questo limite viene imposto dalle stesse organizzazioni scientifiche...Possono essere posti dei limiti alla sperimentazione? E se sì, quando e come?

G.B. - Io penso che la scienza non deve avere dei limiti, né di carattere politico, né di carattere religioso, e non deve subire imposizioni morali. Intendo per scienza la conoscenza scientifica. L'etica fondamentale della scienza è la sua libertà, e la scienza si è fatta strada nel mondo moderno dividendosi dalla filosofia e dalla religione, alle quali era stata vincolata in tutti i sensi, e spesso da esse ostacolata. Il conoscere è un'esigenza insopprimibile dell'essere umano; è una delle essenze dell'uomo: E' un'esigenza pratica ed è un'esigenza morale opporsi ai vincoli e alle limitazioni, dirette o indirette che ci siano. Quelle dirette le conosciamo meglio, anche per la storia, come il processo a Galileo e il caso Lyssenko in Unione Sovietica. Quelle indirette, che sono notevolissime, dovremmo analizzarle in modo più approfondito....

F.M. - I finanziamenti....

G.B. - I finanziamenti! Certo, nel momento in cui la scienza diventa un'impresa collettiva, che richiede molti mezzi, ci sono idee che non si fanno strada perché non corrispondono a interessi forti, di tipo industriale, di tipo commerciale. Inoltre un terzo e più delle ricerche che si fanno nel mondo sono ricerche di carattere militare, coperte dalla segretezza e destinate a distruggere, a fornire mezzi più perfezionati di distruzione, di difesa o di attacco. Nel campo civile, accade perfino che indagini svolte e accertamenti delle conseguenze di determinate sostanze - per esempio l'amianto - vengano tenute segrete per decenni. La prima documentazione degli effetti cancerogeni dell'amianto è stata fatta in una delle industrie che lavoravano questo minerale, con un'indagine che conteneva una clausola secondo la quale i ricercatori non erano liberi di far conoscere i risultati della ricerca. La conseguenza è stata che si è cominciato ad agire per escludere l'amianto dalla produzione e dall'uso comune con vent'anni di ritardo. Ciò ha significato migliaia e migliaia di morti in tutto il mondo.
Quindi è un problema etico quello di evitare limiti alla libertà della ricerca e alla libera comunicazione e circolazione dei risultati delle ricerche, una condizione che è intrinseca al procedimento scientifico. Vuol dire, questo, che non ci deve essere nessun limite? Io penso a limiti che possono essere posti prima e dopo, rispetto al processo conoscitivo. Comprendo che questa formulazione è imprecisa, è uno schema piuttosto grossolano, ma vorrei spiegarla. Il limite prima consiste nei metodi che vengono usati per arrivare alla conoscenza scientifica. Qui certamente bisogna che ci siano delle regole; non si può, per riprendere l'esempio già fatto, sperimentare su persone che stanno in un lager, e neppure, come è stato fatto per decenni in tutto il mondo, su carcerati, o su dipendenti costretti a sottoporsi a determinate sperimentazioni, o su persone incapaci di intendere, di volere e di decidere.

F.M. - Come è stato fatto negli ospedali psichiatrici.

G.B. - Appunto, come è stato fatto negli ospedali psichiatrici, e nelle carceri, per esempio, o su minori che non sanno quello che viene sperimentato su di loro. I metodi per arrivare alla conoscenza non possono violare la dignità e i diritti umani. L'altro campo di limitazione, ma soprattutto di scelte, anche positive...

F.M. - ...è l'applicazione.

G. B. - E' appunto l'applicazione. Una stessa conoscenza, infatti, può avere applicazioni benefiche, oppure orribili. Non penso che sia necessario fare degli esempi, dal campo nucleare alla batteriologia. Ricordo un articolo che scrisse Gramsci, un articoletto dell'agosto 1918: lui teneva sul giornale Avanti! una rubrica intitolata "Sotto la mole", scritto quando c'era grande sdegno e preoccupazione per il fatto che nella guerra erano stati usati gas asfissianti, e c'era anche esaltazione e preoccupazione per il fatto che erano stati realizzati i primi trapianti - innesti, si chiamavano allora - nei cani. L'articolo di Gramsci comincia dicendo, ai critici che proclamavano la disfatta della scienza perché usata per fini inumani, che anche la zappa può servire per darla sulla testa di qualcuno, e la scrittura può servire per inviare lettere anonime, e la chimica può servire per fabbricare gas asfissianti. Ma questo non dipende dalla scienza, dipende dal contesto, dalle situazioni sociali e politiche in cui queste scoperte vengono applicate. Esprimeva anche molta preoccupazione - questa era un'anticipazione straordinaria - sul fatto che gli innesti - i trapianti - potessero essere usati per comprare e vendere parti del corpo umano, con espressioni piuttosto violente e pittoresche per l'epoca: diceva per esempio che l'utero delle ragazze povere verrà affittato per perpetuare "la stirpe dei pizzicagnoli arricchiti."

F.M. - Anche Spallanzani fece parecchi esperimenti sulla procreazione. Quest'anno ricorre il bicentenario della sua morte.

G.B. - L'abate Spallanzani è stato il primo a fare la procreazione assistita, con i cani. Era riuscito a fecondare una cagna con lo sperma di un cane senza che ci fosse stata copulazione. Spallanzani era molto eccitato da questa scoperta, e scriveva delle lettere in cui magnificava questa straordinaria possibilità. Forse non immaginava quel che sarebbe successo dopo, e che cosa ne avrebbe pensato la Chiesa, in termini di applicazione agli esseri umani. Sono molto belle queste lettere. Una cosa che mi ha colpito quando ho letto per la prima volta i suoi lavori, è che era partito dallo studio dello sperma delle rane. Per raccogliere questo sperma faceva copulare le rane mettendo alle rane maschio delle mini-mutandine, e poi ne spremeva il liquido su un vetrino...

F.M. - Avevo iniziato con l'argomento delle istituzioni e ci vorrei ritornare, perché sono convinto che le istituzioni sono anche generatrici di malattie, non tanto, come sappiamo, quelle nella fabbrica - ad esempio per il lavoro del vetro, o per le plastiche -, ma più in relazione all'azienda, pubblica o privata, in merito a come viene gestito il potere all'interno dell'azienda, della sua organizzazione: questo è fonte di ingiustizia. Emerge anche il problema di quello che si aspetta il dipendente rispetto all'organizzazione, nel senso che non sarebbe giusto colpevolizzare totalmente l'azienda; tuttavia il dipendente si trova a convivere otto, dieci ore al giorno con altri dipendenti, a vari livelli, all'interno di una istituzione nella quale - come si dice - esistono delle "aree di riconoscimento", nel senso che ognuno ha bisogno di venir riconosciuto all'interno di un'istituzione, e ogni organizzazione ha delle regole per il riconoscimento delle persone, per distribuire gli onori, i benefici, le cariche; ci sono delle regole che non sempre vengono rispettate. Dalla tua esperienza di docente di igiene del lavoro, che è un'esperienza medico-sociale importantissima, come vedi l'evolversi delle istituzioni attualmente? Come le istituzioni tengono conto di queste caratteristiche, non tanto in relazione alle malattie legate a cose fisiche - che sono state studiate addirittura da Lombroso per quanto riguarda l'effetto del lavoro sulle persone -, quanto in relazione a quelle che abbiamo definito le regole di riconoscimento?

G.B. - Parliamo di molte istituzioni, a partire dalla famiglia; un'istituzione benefica che contribuisce a creare l'identità della persona, ad assistere, educare, sorreggere, ma pu essere anche un elemento di coazione, perfino di violenza, e non solo per ragioni psicologiche, ma per il modo stesso come è oggi costruita. Sono convinto, per esempio, che il fatto che oggi i giovani stiano molto a lungo nella famiglia rappresenta un beneficio, un elemento di sicurezza, che aiuta a sopravvivere e a soddisfare le esigenze materiali; però toglie autonomia. I giovani pagano i vantaggi con una perdita sostanziale di autonomia. In apparenza sono completamente liberi, ma chi non ha un lavoro, una sicurezza, una possibilità di farsi una famiglia propria, ne soffre, si trova a disagio, soffre di una situazione che può anche indurre comportamenti incivili o causare situazioni patogene. Più che sul piano fisico, sul piano comportamentale ci possono essere dei danni. In istituzioni come la fabbrica, o anche l'ufficio, ci sono patologie ormai note, da agenti fisici, chimici, dall'organizzazione del lavoro: ritmi, orari, lavoro notturno, carico del lavoro e così via. Ci si sta ora interessando sempre più dei fattori relazionali, e si è visto che la soddisfazione del lavoro, la gratificazione del lavoro, un sistema che permetta di comunicare a tutti i livelli, che spezzi o che integri comunque in modo umano l'ordinamento gerarchico, è indispensabile per sorreggere il lavoratore nella fabbrica. Questo peraltro vale anche nelle istituzioni educative, nelle istituzioni amministrative, nelle istituzioni della comunicazione e così via. C'è una parola che viene molto spesso usata, a proposito o a sproposito, che è "stress". Lo stress è il trasferimento sul piano somatico di motivazioni, reazioni mentali a delle pressioni, anche non esplicite, alle interferenze, alle prepotenze, all'eccesso di attese oppure, al contrario, alla sottovalutazione del contributo che uno può dare nel lavoro. E' un campo nel quale c'è ora una grande messe di ricerche. Ci sono poi quelle che Foucault chiama le istituzioni totali, nelle quali c'è una forte carica repressiva. Ma non tutte le istituzioni sono uguali. Anche Althusser esagerava nel definire tutte le istituzioni come apparati ideologici, come elementi repressivi; le istituzioni possono anche sorreggere, aiutare.

F.M. - Il fatto che le persone non possono realizzare quello che sanno fare - c'è un momento in cui viene bloccata la capacità di espressione, la capacità del fare -, emerge oggi con più chiarezza dal fatto che cambiano le mansioni, le specializzazioni, e in questi ultimi anni c'è gente che si è trovata senza una collocazione, perché nel giro di poco tempo la sua mansione non serve più.

G.B. - Certo.

F.M. - E ne discende tutta la necessità di una riqualificazione per riattivare le risorse della persona, ma non sempre è possibile, c'è gente che rimane fuori gioco sociale...

G.B. - Non c'è dubbio.

F.M. - L'ultima domanda riguarda le strutture del disagio.

G.B. - Scusa, quello che tu hai detto prima richiede due impegni sostanziali. Uno è la formazione, nel senso che non si può contrastare questo fenomeno se non si è forniti di una formazione che sia multilaterale, che permetta non solo di fare una determinata cosa, ma anche di farne un'altra e di cambiare campo di lavoro; da ciò l'importanza di una formazione scolastica prolungata multilaterale, che abbia anche delle fasi applicative, ma non ridotte a un'unica mansione. L'altra, che è un po' meno analizzata, riguarda le conseguenze che si hanno dopo il lavoro, cioè nell'epoca del pensionamento. Chi sapeva fare una sola cosa non può più farla quando ha terminato di lavorare ufficialmente - è raro che possa farlo, a meno che non sia stato un idraulico o un elettricista -, e dato che fortunatamente, andando in pensione, adesso si campa molti anni, questa situazione priva molti di ogni soddisfazione, di ogni possibilità di essere ancora utili, di guadagnare, di sentirsi partecipi di qualcosa. Sono invece privilegiati quelli che hanno avuto una formazione multilaterale, che hanno svolto un'attività intellettuale o mestieri che si sono accompagnati al piacere di farlo e alla possibilità di scegliere vari campi di attività o di ozio. Ora bisogna dedicare molta attenzione a questo tema, che è un elemento importante di equità.

F.M. - Questo rientra in un interesse che già da tempo ho formulato, e che nel mio lavoro di terapeuta mi era venuto in riferimento a persone giovani che vanno in pensione, e hanno davanti a sé ancora una trentina d'anni di lucidità: come possono riprogettare la vita? Su questo campo si pone un'altra domanda, relativa alle strutture del disagio. Non si tratta solo più dei giovani, ma anche dei pensionati: come dovrebbe delinearsi questo rapporto fra istituzioni del terzo settore e strutture pubbliche? Dato che tu ti occupi anche del welfare, dirigendo la rivista "Qualità Equità" che tratta questo argomento, che sviluppo vedi, in relazione a questo terzo settore? Il volontariato in Italia - questa presenza del Terzo Settore, che esiste in tutti i paesi - secondo te, come alcuni sostengono, è una presenza eccessiva? Oppure viene a denunciare in primo luogo un'assenza di strutture pubbliche o private adatte alle necessità che vengono coperte dalle strutture, appunto, del volontariato?

G.B. - Il terzo settore, che è diverso dal pubblico e dal privato orientato al profitto, esiste in moltissimi paesi. In Italia non è tra i più sviluppati, anche se negli ultimi dieci anni è cresciuto molto e rappresenta ormai una realtà, sia in termini di attività, di occupazione retribuita, di lavoro volontario, di servizi resi, soprattutto come servizio alle persona, in campi che non sono coperti o lo sono in modo insufficiente dalle istituzioni pubbliche. Non conosco abbastanza bene l'articolazione del Terzo Settore, ma ho l'impressione che ci siano punte di eccellenza, un tessuto molto forte anche a livello periferico, e anche delle zone di equivoco. Per esempio, nel campo della cooperazione ci sono anche rapporti interni tra soci, lavoratori, dipendenti e occasionali che non sono basati sul riconoscimento di eguale dignità, quindi ci sono anche problemi da risolvere sul piano dei rapporti di lavoro e dei rapporti personali. Però sicuramente il terzo settore è una delle novità più importanti che esistono anche in Italia, e credo che esso sia il più adatto ad affrontare zone intermedie tra la condizione di malattia e la condizione di salute - quello che tu chiami "disagio" - o per operare verso forme di assistenza che non possono essere standardizzate, perché richiedono un rapporto personale molto stretto.


Foto

“Io Diviso/Io Riunito”

Indietro